Un laboratorio di ricerca plastic-free è (quasi) possibile

L’addio alle bottigliette monouso per l’acqua o ai sacchetti di plastica è solo l’inizio: è sempre più chiaro che affinché i consumi di questo materiale si contraggano in modo significativo è necessario un approccio integrato, che coinvolga tutti i settori. E se forse davamo per scontato che il problema riguardasse solo il settore produttivo, oggi sappiamo che non è così.

Uno degli ambienti dove il problema è passato inosservato molto a lungo, per esempio, è quello dei laboratori per la ricerca scientifica, dove supporti per gli esperimenti, flaconi, guanti, pipette e altri dispositivi plastici di ogni sorta sono indispensabili e monouso, in particolare nel settore biomedico. Il risultato è che proprio i luoghi del sapere e del progresso sono quelli dov’è meno frequente il riutilizzo e di conseguenza diventano una fonte massiccia di rifiuti che non possiamo più trascurare.

 

I numeri del problema

A portare la questione alla luce sono stati gli stessi scienziati, per la prima volta nel 2015, tra le pagine di una delle più importanti riviste di riferimento del settore, Nature. Dati alla mano, un team di ricercatori dell’Università di Exeter, nel Regno Unito, ha calcolato il volume della plastica totale impiegata e non riciclata nel proprio dipartimento, quello di biologia. I 280 scienziati all’opera avevano generato oltre 250 tonnellate di plastica solo nell’ultimo anno.

Su questa base, una possibile proiezione del fenomeno su scala globale si traduce in un totale di almeno 5 milioni e mezzo di tonnellate di plastica da buttare: l’equivalente del tonnellaggio di circa 70 navi da crociera tutte insieme, secondo gli autori dello studio. Poco meno rispetto al totale della plastica che riusciamo a riciclare in un anno.

 

Aria di cambiamento

Negli ultimissimi anni, le immagini delle immense discariche a cielo aperto sulle spiagge di tutto il mondo, della tremenda isola di plastica nel bel mezzo del Pacifico e la consapevolezza sulla diffusione e la pericolosità delle microplastiche hanno generato un profondo cambiamento, se non ancora nei comportamenti, perlomeno nell’opinione pubblica. Compresa quella dell’ambiente accademico e, in generale, del settore ricerca.

Diversi gruppi di scienziati hanno preso a cuore la questione fino a farne una vera e propria missione, e non solo con l’istituzione di giornate per sensibilizzare sul tema e hashtag come #LabWasteDay, bensì anche con il lancio di progetti di studio mirati a sviluppare strategie per superare l’uso della plastica in laboratorio.

 

Esempi da dieci e lode

Una delle prime è stata l’Università di Leeds, che ha deciso di lavorare per diventare single-use-plastic-free, cioè libera dalla plastica monouso, entro il 2023, seguita a ruota dall’Imperial College di Londra, che ha optato per il 2024. Non solo tazzine del caffè biodegradabili e stoviglie green nelle mense, insomma, ma anche limitare al minimo indispensabile gli strumenti di lavoro che non possono essere riutilizzati o riciclati.

Tra i progetti più interessanti dell’Imperial, l’istituzione di una piattaforma che offre informazione e supporto ai dipendenti su come ottimizzare e rendere i propri laboratori sempre più green: un piano che si è subito esteso a numerosissime università e istituzioni e che è diventato di fatto un modello per chi accetta la sfida della sostenibilità.

 

Il coinvolgimento dell’industria

Non solo buone pratiche: il sistema della ricerca ha bisogno anche di industrie pronte a rendere quanto prima disponibili, e a costi accessibili, strumenti con un minor impatto ambientale. Via libera agli investimenti in dispositivi riciclabili dunque, ma anche a una nuova generazione di guanti, pipette e supporti in bioplastiche, quelle prodotte a partire dalle matrici organiche e vegetali come gli scarti dei cereali o le bucce della frutta del settore alimentare, proprio come sta succedendo sul fronte del packaging.