Trump e la chiusura sui dazi: i pro e contro della scelta commerciale

L’economia americana vola. Il che legittimerà il presidente Donald Trump a sostenere che sia merito delle sue politiche. Nel secondo trimestre 2018 il Pil degli Stati Uniti è cresciuto del 4,1%, l’aumento maggiore dal 2014. Trump è stato criticato da tutto il mondo per aver reinserito i dazi commerciali, nei confronti della Cina prima e di Europa e Canada, poi.

 

Al G20 tutti uniti contro i dazi

Fronte comune dei Brics contro il protezionismo e la guerra commerciale. Cina, Brasile, Russia, India e Sud Africa sono d’accordo a “combattere insieme contro il protezionismo commerciale“, si legge in una nota pubblicata sul sito del ministero dell’economia cinese. I Brics “sostengono fermamente la globalizzazione economica e il multilateralismo e si oppongono chiaramente all’unilateralismo e alle varie forme di protezionismo”. Il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici, ha definito inappropriati i dazi imposti all’Ue dal presidente americano Donald Trump e ha sottolineato “Crediamo che colpirsi sia assolutamente inappropriato e che dobbiamo agire con gli Usa come alleati, non nemici ma alleati”.

 

Il no del Senato americano

A metà luglio persino il Senato americano ha lanciato un monito contro Donald Trump, approvando con 88 sì e 11 no una mozione non vincolante che chiede al presidente di ottenere l’autorizzazione del Congresso prima di imporre tariffe, invocando la sicurezza nazionale. Come ha fatto con acciaio e alluminio importati da Ue, Canada, Messico ed altri Paesi.

 

I punti a favore della scelta

Ma l’equazione libero mercato uguale progresso non è così scontata: la storia economica dopo il 1945 ci racconta che le grandi potenze economiche (Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Cina) hanno applicato politiche economiche protezionistiche seguendo il paradigma che prima bisognava far crescere i settori economici in un ambiente protetto. Anche oggi i paesi esportatori non dispongono automaticamente delle migliori economie. Gli Stati Uniti, in particolare nell’ultimo decennio, hanno ricevuto diversi investimenti stranieri che hanno sostenuto la crescita dell’economia e fatto aumentare le importazioni: il risultato certo è una bilancia commerciale in deficit.

Alla luce di queste considerazioni, si può comprendere il ragionamento di Trump: vorrebbe riportare gli Stati Uniti allo splendore e alla ricchezza di un tempo e riconquistare la posizione di predominanza mondiale che avevano, e lo vuole fare, come si è fatto in passato, con il protezionismo. Imponendo i dazi vorrebbe scoraggiare le importazioni, facendo ripartire la produzione interna.

 

 

I rischi del protezionismo

L’America non è comunque nuova all’utilizzo dei dazi, come quelli al 350% per tabacco da fumo e 130% per noccioline. Una politica di divisione, inoltre, è sempre molto rischiosa. La difficoltà è proprio questa: il protezionismo si rivela una politica divisiva non solo sul piano internazionale, ma anche all’interno del Paese.

 

A maggio oltre mille economisti hanno scritto a Donald Trump per contestarne le politiche protezionistiche in materia economica e metterlo in guardia dal ripetere gli stessi errori che furono commessi dagli Stati Uniti negli anni Trenta che scatenarono la Grande Depressione. Nella lettera, si confuta la tesi secondo cui il peggioramento nella qualità della vita sia da ricondurre agli effetti del libero scambio, che invece è stato motore di crescita. Il livello di prosperità – sostengono gli esperti – è invece da attribuirsi proprio al commercio internazionale. “Il protezionismo può incrinare l’impegno del Paese nel sostenere il commercio internazionale non solo come veicolo per aumentare la ricchezza della popolazione, ma anche come strumento per prevenire eventuali conflitti, così come è avvenuto dal Dopoguerra in poi”, scrivono gli economisti.