Entro il 2050 fino all’80% delle persone vivrà nelle città. Tra le questioni più urgenti da affrontare ci sarà sicuramente la gestione dell’approvvigionamento alimentare: saranno necessarie infrastrutture adatte e di piani logistici mirati per garantire un flusso sufficiente di cibo verso i centri urbani. Il tutto in un clima di sostenibilità, dove il cibo sia disponibile per tutti nonostante una popolazione in forte crescita e i terreni per le coltivazioni e l’allevamento inizino a scarseggiare. Risulta chiaro che bisognerà rimettere mano al concetto di smart city.
Coltivare verso l’alto
Raccogliere lattuga, pomodori, spinaci e fragole da appezzamenti realizzati uno sopra l’altro, simili a scaffali, o da set di cilindri paralleli sviluppati in altezza: si chiama vertical farming, o coltivazione verticale. Anziché estendersi in superficie sfrutta anche lo spazio sovrastante e riduce così drasticamente la necessità di terreno, permettendo di condurre attività agricole anche nei centri urbani.
Si tratta di un metodo di coltura fuori suolo, in spazi generalmente chiusi come palazzi, grattacieli, magazzini, ma anche vecchi container, adibiti a serre. Rimanere all’interno di queste strutture consente di lavorare in un ambiente controllato: temperatura, umidità, entità dell’annaffiatura sono “matematici”, e il raccolto viene messo al riparo dai potenziali danni del meteo, così come da agenti patogeni e parassiti. La luce è garantita da LED e il processo è indipendente dalle stagioni. In più spesso, grazie alla coltivazione idroponica e aeroponica, si consuma molta meno acqua.
Le rese, a parità di superficie, possono diventare anche 100 volte superiori, con grandi vantaggi di costo (sia per la produzione che per i trasporti), oltre che in termini di logistica e di freschezza dei prodotti: il tutto, infatti, può avvenire tranquillamente in città.
Un po’ di storia
All’inizio del secolo scorso il concetto di vertical farming era più una fantasia futuristica che altro e chi l’aveva immaginata era preso per un visionario, più che un vero esperto di coltivazioni e architettura. I primi concept si collocano nel periodo Le Courbusier, negli anni ’20, ma per le prime realizzazioni “moderne” dobbiamo aspettare la fine del ‘900, con le sfide lanciate dal professore di scienze ambientali Dickson Despommier e le sue sfide ai suoi laureandi: per esempio, preparare un piano per rifornire l’intera popolazione di Manhattan sfruttando i tetti dei palazzi, o con un “orto” di trenta piani elevato su un piccolo appezzamento di terra.
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Il vertical farming oggi
Il maggior fermento verso pratiche di questo tipo è naturalmente focalizzato nei centri abitati con una densità di popolazione elevata. Un esempio tra tutti è quello di Tokyo, al momento sede delle maggiori strutture a livello globale, dove vengono prodotti 10mila cuori di lattuga al giorno, con un consumo energetico dimezzato rispetto alle colture tradizionali, tanto per fare un esempio. Ma anche nel circondario di Londra si stanno sviluppando facilities che uniscono la coltivazione di vegetali all’acquacoltura, cioè all’allevamento di pesci.
Esempio significativo è anche quello di Seattle, dove l’accesso ai prodotti locali non è semplicissimo ma la popolazione è alla ricerca di cibi salutari e freschi. Qui la company Plenty sta investendo molto per lo scale-up di strutture verticali dove coltivare senza l’impiego di pesticidi e fertilizzanti di sintesi, con un ampio uso dell’Internet of Things (sensori, telecamere a infrarossi) per seguire la crescita e la salute delle piante. Per meglio comprendere il calibro del progetto, basti pensare che uno degli investitori è Jeff Bezos, il CEO di Amazon. Ma di casi ce ne sono oggi anche molti altri.
Limiti e critiche
Nonostante tutti i progetti siano ricchi di fascino e sicuramente interessanti dal punto di vista tecnologico, non sono liberi da incognite e da perplessità. I costi di partenza per questo tipo di attività sono enormi, se paragonati a quelli di una classica serra idroponica, per esempio, e le innovazioni di cui necessitano sono spesso ancora in fase di test e sviluppo. Inoltre c’è ancora da approfondire, caso per caso, il loro fabbisogno energetico e, più in generale, il loro impatto ambientale.