Tra i progetti nazionali e internazionali di tutela ambientale e climatica, i crediti di carbonio, o carbon credits, si presentano come una strategia sostenibile con l’obiettivo di ridurre o assorbire i gas ad effetto serra responsabili del riscaldamento climatico globale.

Per la sua natura, è la base di un modello di business focalizzato sulla lotta al riscaldamento globale, ovvero è un tipo di investimento che può interessare principalmente le aziende che emettono gas serra, perché possono contribuire in modo diretto alla realizzazione e allo sviluppo di uno o più progetti di tutela ambientale restando in linea con gli obiettivi di Parigi.

Ma è un prodotto basato su un meccanismo che presenta anche lati oscuri che oggi vengono valutati con attenzione dal mercato.

COMPRARE ANIDRIDE CARBONICA, COS’È IL CREDITO DI CARBONIO

Un credito di carbonio, o carbon credit, è un titolo il cui valore è equivalente ad una tonnellata di CO2 non emessa o assorbita grazie ad un progetto di cura e conservazione di una superficie forestale realizzato con lo scopo di ridurre o riassorbire le emissioni globali di CO2 e altri gas ad effetto serra. Il credito di carbonio viene scambiato per compensare l’emissione di una tonnellata di anidride carbonica equivalente, attraverso la realizzazione di un progetto di sviluppo con certificazione fornita da un Ente di terza parte.

Questi progetti sono realizzati prevalentemente in Paesi in via di sviluppo e in quelle aree a rischio deforestazione che, grazie all’investimento sulla loro conservazione, da un lato permettono alla foresta di continuare a svolgere il proprio “compito” di serbatoio di carbonio e dall’altro danno un nuovo sostegno al benessere economico e sociale delle popolazioni locali.

Se un’azienda investe in progetti di questa natura, può calcolare le tonnellate di CO2 che la foresta salvata assorbirà ogni anno rispetto a uno scenario in cui quell’area fosse stata deforestata. Il calcolo produce crediti di carbonio, che hanno un valore economico definito dal mercato e possono essere venduti e comprati, in un sistema di finanziarizzazione del clima. Chi compra crediti di carbonio può usarli per compensare emissioni troppo alte nelle proprie attività e utilizzare l’etichetta di carbon neutrality sui propri prodotti e servizi.

DIECI ANNI DI CRESCITA E DI BUONE INTENZIONI

Lo schema di investimento nei crediti di carbonio nasce nel 2013 durante la CUP19 di Varsavia, la Conferenza sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite, e come indica il suo acronimo Redd+, Reducing emissions from deforestation and forest degradation in developing countries, si presenta come un meccanismo per incentivare i paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni dovute alla deforestazione e ai processi di degrado forestale. Molte delle più grandi aziende del mondo hanno utilizzato crediti di carbonio venduti sul mercato volontario non regolamentato (ne esiste anche uno regolamentato), che è cresciuto fino a raggiungere i 2 miliardi di dollari nel 2021 e i 20 dollari per tonnellata di CO2 equivalente. Ma sembra non essere oro tutto quello che luce e i recenti scandali sul loro reale impatto negli ecosistemi protagonisti dei progetti, ne hanno minato la credibilità verso gli investitori.

LE INCHIESTE GIORNALISTICHE

Oggi ci si inizia a chiedere quali siano gli effetti reali che i crediti di carbonio generano sul cambiamento climatico.
Inchieste giornalistiche internazionali pubblicate all’inizio dell’anno dalle testate The Guardian, Die Zeit e SourceMaterial, hanno rilevato che erano senza alcun valore il 94% dalla compensazione di emissioni legate alla foresta pluviale fornite da Verra, l’ente no profit incaricato di certificare la qualità dei programmi di produzione dei crediti di carbonio. Inoltre queste rappresentavano circa il 40% dei crediti globali approvati dall’organizzazione.

I diversi progetti di protezione delle foreste, in sostanza, non avevano prodotto i risparmi promessi sulle emissioni nocive.

Sempre secondo queste inchieste poi, in molti casi, il rischio deforestazione è stato sovrastimato, mentre la scelta di proteggere un tratto di foresta piuttosto che un altro può spingere a deforestare zone non protette in altre parti del mondo dove le comunità locali e dei popoli indigeni spesso si vedono espulsi dagli ecosistemi in cui vivevano perché ritenuti una minaccia. Così questo tipo di investimento si è prestato ad operazioni di greenwashing da parte di aziende che si sono dichiarate sostenibili o hanno potuto certificare le loro attività come “a zero emissioni” quando non era vero.

Questa situazione per gli speculatori potrebbe significare perdere miliardi perché ha minato la credibilità delle certificazioni, che per alcuni sono diventate “crediti spazzatura”, e reso sempre più probabile il crollo del valore sotto il peso della loro inaffidabilità.

GLI SCENARI FUTURI

Quindi come si muoveranno nel prossimo futuro le aziende che vogliono raggiungere l’obiettivo net zero, cioè l’equilibrio tra emissioni delle proprie attività ed “emissioni catturate” tramite iniziative in difesa dell’ambiente, come ad esempio la riforestazione?

Gli scenari sono ancora tutti aperti, certo è che, per il bene delle foreste e del nome stesso della Convezione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, diventa urgente un ripensamento radicale dei meccanismi di mercato del carbonio e degli obiettivi degli interventi che devono prendere come esempio anche le “nature based solution”, una serie di azioni ispirate, supportate o letteralmente copiate dalla natura e che si traducono in progetti che generano crediti tramite la protezione, la gestione sostenibile o il ripristino degli ecosistemi naturali.