Lo sviluppo delle piattaforme digitali, unito alla loro distribuzione capillare, sta facendo crescere sempre più il fenomeno del «lavoro on demand», per usare una definizione presa in prestito dall’Economist. Quelli che sembrano solo “lavoretti” hanno però permesso a challenger brand come Uber a Airbnb di diventare dei colossi globali.
Facciamo chiarezza: la differenza tra gig e sharing
Spesso si tende a fare confusione tra gig e sharing economy: quest’ultima è ben sintetizzata dall’esempio di BlaBlaCar, il carpooling che si basa sulla divisione delle spese di viaggio tra conducente e passeggeri interessati a percorrere la stessa tratta. Lo stesso non si può dire, ad esempio, di Uber: l’autista che risponde ad una chiamata del passeggero tramite app fa cadere il concetto di condivisione a favore di un servizio a pagamento vero e proprio.
Un po’ di etimologia
“Gig” è una parola che in inglese statunitense definisce in modo informale un lavoretto o un incarico temporaneo e occasionale. Da qui il neologismo “gig economy”, l’economia dei “lavoretti”. Si sgretola così il mito del posto fisso, sgombrando il campo al lavoro su misura, da fare quando si ha tempo e necessità. Quasi un americano su quattro ha guadagnato in questo modo l’anno scorso. Ma in cosa consiste questo nuovo corso del lavoro?
La nuova frontiera del cibo
Entrare nel vivo della gig economy significa parlare di cibo. Due nomi su tutti: Foodora e Deliveroo. La domanda e l’offerta di lavoro si incontrano sulle app digitali e i “riders” inforcano le loro biciclette per consegnarti la cena a domicilio a un prezzo davvero basso. Probabilmente troppo basso, tanto da accendere proteste per chiedere maggiori tutele e una soglia di stipendio dignitosa.
Molte direzioni, nessuna guida
Qui rimane il nodo più controverso della gig economy: la mancanza di regole precise per gestire le dinamiche dettate dal progresso della tecnologia in un contesto di massima flessibilità lavorativa. C’è chi definisce tutto questo il miglior modo possibile di far progredire il mercato del lavoro e chi invece lo etichetta come sfruttamento legalizzato. La certezza è che i player tradizionali abituati ad essere dominanti e non disposti a rinnovarsi stanno soffrendo più che non mai la concorrenza di Airbnb e di Uber.
C’è una linea sottile tra il lavoro autonomo e quello dipendente su cui ancora manca chiarezza, ma la cassa di risonanza di queste attività porterà sicuramente a novità significative. Nel frattempo, perché non concedersi quel desiderato sushi comodamente seduti sul divano?