Robot e salute: come le macchine possono salvarci

Due surfisti esausti tentano di sfuggire alla forza delle onde. Un piccolo drone li raggiunge e li sorvola a qualche metro di altezza, facendo cadere sopra le loro teste il salvagente che consentirà loro di tornare a riva. Succedeva qualche mese fa al largo di Brisbane, in Australia, grazie ai riflessi pronti dello staff di salvataggio del luogo, che in quel periodo stava testando il potenziale del velivolo per il monitoraggio dei bagnanti e per il rilevamento degli squali.

Bilancio della giornata: due vite salvate in poco più di un minuto di intervento, quando i bagnini in carne e ossa, molto probabilmente, sarebbero arrivati troppo tardi.

 

S.O.S. – drone

Agili, facili da telecomandare, dotati di “occhi” sempre più sensibili, i droni (anche detti UAV, da Unmanned Aerial Vehicles) hanno un potenziale enorme quando si tratta di piccole operazioni in caso di pericolo in mare. Ma non solo: da almeno dieci anni vengono impiegati ad ampio spettro in incidenti e disastri, sia a scopo perlustrativo che per il pronto intervento.

Librandosi in aria, hanno di fatto rotte quasi prive di ostacoli. Sono versatili per quanto riguarda il carico da trasportare. Possono permettersi di raggiungere quote che non li espongano ai rischi presenti a terra, come grossi incendi o esplosioni, rivelandosi utili quando diventa difficile per gli operatori comprendere come intervenire senza mappare in tempo reale la situazione. O nelle catastrofi naturali come i terremoti e gli incidenti nucleari, dove è pericoloso per gli addetti ai soccorsi valicare la “linea rossa”, oltre la quale potrebbero però esserci dei superstiti.

E sono velocissimi: possono tranquillamente librarsi sopra al traffico cittadino a una velocità di 50 chilometri orari e fare la differenza laddove la partita tra la vita e la morte si gioca in pochissimi minuti. Per esempio, trasportando un defibrillatore a una persona colpita da infarto o altri dispositivi per la rianimazione.

 

Droni e accesso alle cure

Ci sono aree remote del Pianeta dove distanze enormi, strade dissestate o inesistenti e costi di trasporto elevati rendono inaccessibili a molti cittadini i servizi sanitari. Possono essere necessarie ore e ore di viaggio per raggiungere l’ospedale o l’ambulatorio più vicino e le conseguenze, inutile dirlo, sono spesso drammatiche.

Per questo in paesi come Ruanda e Malawi i droni sono al centro di diversi progetti nati da collaborazioni tra governi, agenzie per la salute, startup. Tra gli obiettivi, il recapito di kit per il pronto soccorso, farmaci o di sacche per le trasfusioni (in caso di emorragie post-parto, per esempio, o nelle gravi anemie causate dalla malaria), dove comprimere i tempi di trasporto a una manciata di minuti, anziché svariate ore, ha un peso enorme sulla sopravvivenza.

Oltre che nelle situazioni di emergenza, questi mezzi possono essere impiegati per veicolare il trasporto di strumenti diagnostici, campioni di sangue per le analisi e, da qualche tempo, anche vaccini.

 

Il San Bernardo robot

Vi trovate sotto la neve dopo una valanga, o sotto le macerie, al buio o nella polvere. Sentite un rumore: qualcuno sta scavando verso di voi. Un muso vi osserva da vicino, due zampe vi aiutano a uscire dal buco in cui siete finiti, vi ritrovate sul dorso di una specie di grosso San Bernardo meccanico che vi trasporta in salvo.

È quello che potrebbe succedere grazie ai robot di ultima generazione per la ricerca e il salvataggio fatti per muoversi via terra. Creature progettate ad hoc per affrontare ciascuna un tipo diverso di emergenza, terreno e urgenza: a due o quattro zampe, dotate di ruote o di cingoli, più o meno rapide, agili, resistenti o flessibili.

Grande ispirazione per queste tecnologie è la natura: gli stambecchi per le macchine che si ritroveranno a risalire pendii, i ghepardi per quelle che dovranno correre, gli insetti per chi dovrà arrampicarsi sulle pareti o saltare degli ostacoli, vermi e serpenti per chi dovrà operare strisciando o infilandosi nel terreno (e sono solo alcuni dei tanti esempi possibili).

Studiati per compiere performance superiori alle nostre (chi più forte, chi più veloce, chi potrà rimanere attivo per un tempo molto più lungo di quello che il nostro corpo ci consentirebbe), formano uno “zoo” estremamente variegato per forme, dimensioni e materiali. Unico comune denominatore: essere sacrificabili, se questo consente di salvare delle vite umane.

 

Uno sguardo al futuro

Uno dei primi impieghi di robot per il salvataggio risale nientemeno che alla ricerca di superstiti in seguito al terribile attacco al World Trade Center, l’11 settembre 2001. Ma non mancano altri casi ormai incisi nella cronaca: l’incidente nucleare di Fukushima, per esempio, dove piccoli robot sono penetrati nelle aree contaminate consentendo agli operatori di non esporsi per primi al rischio, ma anche il disastro della Costa Concordia, dove robot subacquei dotati di telecamere hanno contribuito alla ricerca dei dispersi nel relitto.

Tecnologie già operative, insomma, ma non per questo prive di un margine di miglioramento notevole. Sia nel caso dei droni che nei robot terresti si tratta di macchine telecomandate, perciò non autonome nella scelta dei movimenti e delle operazioni.

Il prossimo passo avanti, quello che segnerà una seconda “era” della robotica, sarà quello che consentirà a questi “esseri” di vedere e operare prendendo coscienza e, di conseguenza, decisioni in tempo reale. Quello che consentirà a un drone di volare percependo lo spazio circostante come un uccello o un pipistrello, o che farà sì – per esempio – che un robot con le zampe possa intuire quando un terreno è troppo scivoloso o troppo molliccio per farvi affidamento. Quello che negli esseri umani e negli altri animali diventa possibile con l’istinto, insomma, e che nei robot si identifica  con l’intelligenza artificiale.