Open innovation: le aziende private investono su startup e tech company

Per restare al passo coi tempi, le società non possono fare affidamento solo sui propri centri di ricerca e devono comprare innovazioni o concederle in licenza ad altre imprese e startup. Ma perché puntare all’esterno, invece di rafforzare i propri reparti Ricerca & Sviluppo interni? Sempre più spesso infatti un’azienda si ritrova a muoversi in aree estranee al proprio core business. È fondamentale quindi saper cercare in altre realtà dove quelle competenze già ci sono e soprattutto riuscire a farlo velocemente per non arrivare in ritardo in un mondo che corre sempre più veloce. Spesso le piccole società esterne sono più veloci delle grandi aziende. In particolare le startup, che hanno fame di business.

Le origini dell’open innovation

Il termine tecnico è “open innovation”. A coniarlo nel 2003 è stato Henry Chesbrough, economista e docente alla University of California di Berkeley, che pubblicò il primo saggio sul tema: Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology. “L’open innovation – spiega Chesbrough – esisteva già: diverse imprese, cercavano già all’esterno strumenti, competenze e soluzioni tecnologiche. Era solo arrivato il momento di definire e studiare il modello”. Per Chesbrough, l’Open Innovation è un paradigma che afferma che le imprese possono e devono far ricorso tanto a idee interne quanto a esterne, se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche. Come? Costruendo relazioni tra impresa e università, come accade in Silicon Valley. In America, per esempio, i professori possono lavorare un giorno alla settimana nelle aziende. Questo porta vantaggi a entrambe le parti: alle aziende, che possono attingere da un bacino di innovazione proveniente dalle facoltà; alle università, che hanno una visione chiara dei bisogni del mercato e che possono così finanziare progetti di ricerca.

Open innovation nel pharma

Il settore da sempre più avvezzo al modello dell’open innovation è certamente il farmaceutico. Nell’era dei Big Data cresce l’alleanza tra Big Pharma e Ict: nei prossimi tre anni in Italia la quota di imprese del farmaco che faranno Ricerca & Sviluppo in partnership con le aziende di Information and Communications Technology salirà all’84%, quasi 2 volte e mezzo in più rispetto al 35% di 5 anni fa. Un’alleanza che permette di analizzare in tempo reale un’enorme quantità di informazioni, per velocizzare e rendere più efficace il processo di ricerca e di perfezionamento delle cure. Il farmaco smette così di essere solo un prodotto, diventando parte di un percorso terapeutico che dialoga con diagnostica, dispositivi e servizi digitali. Un esempio? Novartis coniuga la sua rete mondiale dei Novartis Institutes for BioMedical Research, nei quali lavorano circa 6mila ricercatori, alla propensione verso collaborazioni e alleanze con il mondo della ricerca, nell’ottica dell’open innovation, che sempre più si sta diffondendo nel settore. In Novartis, tutto questo si traduce anche in partnership strategiche. Nella storia della multinazionale spiccano esempi di accordi con imprese innovative di piccole dimensioni, così come partnership avviate con grandi realtà distanti dal mondo della salute: “Abbiamo siglato un accordo con Google relativo alla cura degli occhi: con loro stiamo studiando le cosiddette lenti a contatto smart per pazienti diabetici, in grado di monitorare costantemente i livelli di glucosio nell’organismo”, raccontano dall’azienda.

Open innovation e consulenza

A inseguire il farmaceutico sono le grandi società di consulenza che si dotano di strutture apposite per l’incontro tra le esigenze dei clienti e soluzioni innovative provenienti dall’esterno. È il caso di Accenture con decine di Innovation center dedicati in tutto il mondo, Deloitte con le sue Green House e, ultimo a livello temporale, EY con i suoi 17 Wavespace. Si tratta di “showroom” pensati per l’implementazione di soluzioni digitali con clienti e partner e come punto di incontro tra aziende, startup e università. Ma il progetti di EY a tema innovazione non si esauriscono qui: “Stiamo implementando e lanceremo a breve una piattaforma che metta in contatto i nostri clienti con startup che soddisfino le loro esigenze digitali”, spiega il Cfo per l’Italia Andrea Pogutz.

Le utilities all’inseguimento

Anche i colossi dei settori energia, da Enel a Edison fino a Iren, guardano al futuro. Tanto da aprirsi all’ottica di open innovation, con collaborazioni o investimenti su startup o pmi innovative che portino valore e servizi innovativi agli utenti. Enel, per esempio, ha già avviato progetti con oltre 30 startup. Attualmente il Gruppo detiene partecipazioni in alcune di esse, con le quali sta portando avanti progetti. Come con Smart-I che ha sviluppato un sensore con un algoritmo in grado di analizzare la scena urbana permettendo a Enel arricchire l’offerta verso i Comuni con servizi quali controllo della mobilità, sicurezza urbana ed efficienza energetica dell’illuminazione pubblica. Enel sta poi coordinando il progetto INCENSe finanziato dalla Comunità Europea con 8 milioni di euro: due concorsi selezioneranno 42 startup, ciascuna delle quali riceverà un finanziamento di 150mila euro a fondo perduto e un programma di accelerazione. “Tutte le attività – spiega Luciano Tommasi, responsabile di Startup initiatives and business incubator – si inseriscono nella strategia che Enel ha adottato per approcciare l’ecosistema delle startup e posizionarsi come partner industriale per supportarle”.