Mr. Starbucks pronto a bere il suo caffè alla Casa Bianca? Ritratto di Howard Schultz

Dal bancone del bar allo Studio Ovale. È quello che potrebbe succedere a Howard Schultz, l’uomo che non ha inventato l’acqua calda, ma ripensato la tazzina in maniera così radicale da costruire un vero e proprio impero fatto di Frappuccini, cookies al cioccolato, divanetti e wi-fi gratuito per tutti i clienti. Le caffetterie Starbucks da lui messe a punto hanno imposto un nuovo modello di locale così potente da essere stato ormai copiato a qualsiasi latitudine e così di successo da proiettare il suo ideatore verso la poltrona più prestigiosa del mondo.

 

Il viaggio in Italia

Un viaggio d’affari in Italia accende la scintilla nella mente di Schultz. È il 1983 e a Milano il manager americano si imbatte in un fenomeno totalmente assente negli Stati Uniti: 1500 bar sparsi per le vie, diversi per stile e pubblico, ma sempre caratterizzati dallo stesso clima di convivialità: la cassiera sorridente, il barista che saluta i clienti abituali per nome e ci scambia due parole mentre prepara un cappuccino, gli altri avventori seduti ai tavolini intenti a leggere il quotidiano oppure a conversare, alcuni impegnati in incontri di lavoro, altri in relax. Per uno abituato al rituale istantaneo e senza poesia del caffè solubile è come assistere a uno spettacolo teatrale. Fa tesoro di quanto visto e prova a trasformare la spontaneità dei bar italiani in un modello di business, una bevanda di uso tutto sommato comune in un prodotto esclusivo e nuovo. Del resto la caffetteria era nel suo destino: durante gli anni alla Northern Michigan University, Schultz aveva rinunciato alla borsa di studio ottenuta per meriti sportivi e per mantenersi all’università, aveva sottoscritto un prestito d’onore che aveva ripagato facendo diversi lavori: uno era proprio quello di barista.

 

Dal “Giornale” a Starbucks

La capacità di vendere Schultz l’acquista durante la sua esperienza di lavoro in Xerox e poi in Hammarplast, una società di prodotti di un’azienda svedese di cui ben presto diventa vice presidente e general manager a capo del team di venditori. È proprio allora che entra in contatto con Starbucks, all’epoca una piccola e sconosciuta torrefazione di Seattle ma con tutti i requisiti per mettere in atto le idee partorite a Milano, andando di bar in bar, bevendo espressi e caffè freddi. I proprietari di Starbucks, però, non ne vogliono sapere di trasformare la torrefazione in un caffetteria in stile italiano ma rivisitata in chiave americana.

Mettersi in proprio è l’unica via. Nel 1985, Schultz lo fa con un proprio brand (non a caso dal nome italiano, “Il Giornale”), e si mette alla ricerca dei fondi per partire, 1,6 milioni di dollari. L’impresa non è facile: “Ho parlato con 242 persone e 217 mi hanno detto di no. È veramente sconfortante sentirsi dire così tante volte che la propria idea è qualcosa in cui non vale la pena di investire”. Ma per un figlio della classe operaia americana la voglia di farcela è così forte da andare oltre i momenti di sconforto. Si rimbocca le maniche e inizia ad aprire un punto vendita dopo l’altro.
Due anni dopo “Il Giornale” è cresciuto così tanto che può valutare di ingrandirsi: Schultz acquisisce le caffetterie Starbucks per 3,8 milioni di dollari e ne diventa l’amministratore delegato. In soli cinque anni apre oltre 140 locali e a quel punto pensa davvero in grande e sbarca a Wall Street.

Il 1992 è l’anno dell’IPO e il gruppo ha un bilancio di 73,5 milioni di dollari. La passione per i caffè originali si diffonde anche fuori dai confini americani ed entro il 2000 il numero di negozi raggiunge il traguardo delle 3.500 unità con un giro d’affari da 2,2 miliardi di dollari. A decretare il successo del format non è tanto il prodotto, quanto il contesto nel quale viene servito e consumato, una specie di “terza casa” dopo l’abitazione e il posto di lavoro, un luogo di ritrovo e di relax, dopo poter lavorare indisturbati oppure dove leggere un buon libro.

Con oltre 238mila dipendenti, i bar Starbucks sono adesso oltre 28mila, distribuiti in 77 paesi. Numeri così importanti da consentire il passo più rischioso, l’approdo in Italia, il paese che in fatto di caffè non aspetta lezioni da nessuno. A settembre avverrà il più volte rimandato sbarco della “sirena” a Milano, uno sbarco che lo stesso Schultz ha promesso avverrà “con umiltà e rispetto”.

Un caffè alla Casa Bianca?
Già nel 2000 Schultz aveva provato a uscire dal gruppo creato quasi dal nulla, ma otto anni dopo aveva fatto marcia indietro ed era ritornato alla guida del gruppo perché preoccupato dalla perdita del valore azionario. A fine 2016 ha rimesso l’incarico di amministratore delegato e nel giugno 2018 ha lasciato il ruolo di presidente esecutivo, dopo 40 anni trascorsi nella società. Una uscita di scena non meglio motivata che subito è stata letta come una imminente discesa in politica. Schultz non ha mai fatto mistero delle proprie posizioni fortementi anti Trump e questo ha alimentato le speranze del partito democratico di poter puntare su di lui per la difficile epoca post Hillary Clinton.

Con il “New York Times” Schultz ha per la prima volta fatto una mezza ammissione: “Voglio essere sincero senza alimentare la speculazione. Da diverso tempo sono molto preoccupato per il nostro Paese, per le crescenti divisioni al suo interno e per la nostra posizione nel mondo. Una delle cose che voglio fare nel prossimo capitolo della mia vita è valutare il ruolo che posso avere per restituire quello che ho avuto dagli Stati Uniti”.

Le primarie del partito democratico per le prossime presidenziali sono ancora lontane ma al momento il miglior candidato è proprio lui: il figlio di un camionista rimasto invalido perché senza assicurazione sanitaria, che ha creato uno dei marchi più potenti e conosciuti del capitalismo a stelle e strisce e in grado di dare al sogno americano una declinazione meno populista.